Intervento chirurgico di appendicectomia e decesso del paziente

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Risarcimento danni da malasanità per: Intervento chirurgico di appendicectomia e decesso del paziente

Il fatto.

L’associazione ha trattato con successo la triste vicenda clinica di una paziente che si ricoverava per una programmata operazione di appendicectomia.
La paziente, a seguito dell’insorgenza di un forte dolore addominale si recava presso il Pronto Soccorso e all’esame obiettivo, presentava algia in ipocondrio destro con irradiazione al fianco destro, addome trattabile, alla palpazione profonda suscita dolore.
I medici ponevano diagnosi di sospetta appendicopatia e disponevano una TC Addome che confermava il sospetto dei sanitari e, pertanto, si disponeva il ricovero presso l’U.O.C. di Chirurgia Generale, si informavano la paziente e i suoi familiari che era necessario un intervento chirurgico di appendicectomia.
Dopo circa cinque giorni la paziente entrava in camera operatoria per appendicectomia e viscerolisi in videolaparoscopia.
Il decorso post operatorio, stando alle annotazioni nel diario clinico era nella norma, la diuresi era spontanea e regolare, nel drenaggio pelvico erano presenti tracce sieroematiche. La paziente appariva in condizioni generali buone, addome trattabile, dolenzia della ferita.

Il giorno seguente all’intervento chirurgico, stando a quanto riportato nel diario clinico, lamentava formicolio al braccio sinistro e dolore alla spalla sinistra. I sanitari procedevano a prelievo per valutare emocromo, coagulazione, elettroliti, enzimi cardiaci, D-Dimero. Si eseguiva ECG (che rilevava tachicardia sinusale) e veniva richiesta consulenza internistica urgente.
Lo specialista la e rilevava improvviso calo pressorio, ipostenia e dolore braccio sinistro. In atto paziente lucida e orientata. Era quindi affidata al rianimatore che confermava ipostenia e parestesie all’arto superiore sinistro, forte dolore alla spalla sinistra.
L’emogasanalisi indicava acidosi metabolica e ipopotassiemia: alla paziente erano pertanto somministrati bicarbonato e cloruro di potassio e si consigliava l’esecuzione urgente di una Tac Total Body.
In attesa della Tac, si procedeva a medicazione della ferita chirurgica e si notava la presenza di materiale biliare e di tracce siero ematiche.
Si procedeva all’esame tomografico che individuava aria libera in sede centroaddominale e nello scavo pelvico. Versamento fluido in periepatica, in perisplenica e nello scavo pelvico. Sfumata imbibizione edematosa dell’adipe mesenteriale nella regione del fianco-fossa iliaca destra.
In considerazione dell’esito della Tac, i medici decidevano di riportare la paziente in camera operatoria. Era sottoposta a laparotomia mediana ombelico-pubica. Aperto il peritoneo, l’operatore rinveniva una lesione all’intestino tenue che suturava a punti staccati.

Nelle ore e nei giorni successivi al secondo intervento, le condizioni generali della paziente si presentavano stabili, almeno secondo quanto riportato nel diario clinico.

Il giorno dopo il secondo intervento chirurgico la paziente iniziava a lamentarsi accusando precordialgia e cardiopalmo. All’esame obiettivo del torace si rilevava murmure vescicolare ipoudibile alle basi.

Veniva richiesta la consulenza del rianimatore e, in considerazione delle condizioni cliniche se ne disponeva il trasferimento in rianimazione dove veniva ricoverata con la diagnosi di insufficienza respiratoria post operatoria.

Qui veniva sottoposta a consulenza chirurgica. La visita rilevava presenza di materiale sierobiliare (100 cc. circa) dal drenaggio. All’esame obiettivo, addome trattabile su tutti i quadranti. Al fianco sinistro, dolenzia alla palpazione profonda. Lo specialista, quindi, consigliava laparotomia esplorativa urgente.

La paziente perciò ritornava per la terza volta in camera operatoria (in cinque giorni). La diagnosi, questa volta, era di liponecrosi al fianco sinistro.

I medici eseguivano una seconda laparotomia mediana ma all’apertura del peritoneo non rinvenivano alcuna lesione intestinale né altre patologie. Procedevano quindi a richiudere a strati la parete addominale.

Dopo sei ore dal terzo intervento chirurgico, l’emogasanalisi evidenziava acidosi metabolica e ipopotassiemia: si somministravano, pertanto, bicarbonato di sodio (NaHCO3) e cloruro di potassio (KCl).
Dopo poche ore si manifestava bradicardia severa, a seguire le condizioni generali della paziente erano critiche: non rispondeva più agli stimoli dolorosi, era sottoposta a manovre rianimatorie e dopo poco i medici dovevano constatarne il decesso.

La diagnosi di dimissione era shock cardiogeno irreversibile in paziente con insufficienza respiratoria post operatoria operata per addome acuto e affetta inoltre da apnee notturne in trattamento con CPAP domiciliare, bronchite asmatica, ipertensione arteriosa.

Quindi la paziente entrava in ospedale per un routinario intervento di appendicite (rectius appendicectomia) e perdeva, inaspettatamente, la vita.

La responsabilità.

I familiari della paziente, presi alla sprovvista dal tragico evento, non si convincevano delle spiegazioni fornite dai sanitari (misteriose complicanze chirurgiche) e chiedevano supporto alla nostra associazione.
Il team SanaSanitas composto dal primario di chirurgia generale, dal medico legale e dall’avvocato fiduciario, cooperavano per accertare le eventuali responsabilità mediche.
Lo studio della cartella clinica evidenziava la sequenza di errori concatenati, tutti causalmente rilevanti nel decesso della paziente.
La paziente, in conseguenza dell’insorgenza di un forte dolore addominale si ricoverava e gli esami consentivano di porre diagnosi di appendicopatia.

Nel primo intervento chirurgico – eseguito in laparoscopia – e non in condizioni di emergenza, i medici provvedevano all’asportazione dell’appendice infiammata.

Purtroppo, nel corso dell’intervento laparoscopico, l’operatore ledeva l’intestino tenue e quindi, successivamente, la paziente doveva essere riportata d’urgenza in camera operatoria per un secondo intervento (questa volta laparotomico) che riparasse il danno all’intestino causato dal primo.

A causa del secondo intervento, si innescava un’insufficienza respiratoria che rendeva necessario il successivo trasferimento della paziente in Rianimazione dove, a seguito di consulenza chirurgica, si decideva di sottoporla addirittura ad un terzo intervento.

Non si comprende bene, scorrendo la cartella clinica, quali ragioni abbiano spinto i sanitari a decidere per un re-intervento su una paziente che già aveva subito due interventi chirurgici (e due anestesie generali) nei precedenti quattro giorni.

Nel caso del secondo intervento, la decisione era stata presa a seguito del risultato dell’esame tomografico che, rivelando la presenza di aria libera in sede centro addominale e nello scavo pelvico e di versamento fluido in periepatica, in perisplenica e nello scavo pelvico, aveva consentito di diagnosticare con sufficiente certezza una lesione alla parete intestinale.

Con riferimento alla terza operazione, invece, non risulta essere stato eseguito preventivamente alcun esame, tomografico o ecografico.

La decisione di riportare una paziente, affetta da apnee notturne e in trattamento con CPAP domiciliare, per la terza volta (in cinque giorni) in camera operatoria, con conseguente terza anestesia generale, quindi, si basa esclusivamente sull’esame obiettivo.

Una simile decisione non può essere condivisa: sarebbe certo stato preferibile eseguire prima un esame strumentale e determinarsi per un terzo intervento solo se le risultanze dell’esame fossero state tali da indicare quella chirurgica come l’unica via.

Sottoporre un organismo già molto stressato e sofferente (tanto da richiederne il trasferimento in rianimazione) ad un intervento inutile non trova alcuna giustificazione.

Quando la paziente si ricovera era in buone condizioni di salute.

Purtroppo, l’errore commesso in occasione del primo intervento ha reso necessario un secondo intervento con conseguente grave prostrazione per il fisico. Il terzo intervento, del tutto inutile, ha peggiorato ulteriormente la situazione, facendola precipitare: l’exitus della paziente, infatti, si avrà poche ore dopo quell’ennesima (non giustificata) operazione.

Il Processo civile.

A seguito di lettera di contestazione dei fatti, la struttura sanitaria -assicurata per l’evento verificatosi- delegava alla compagnia di assicurazione per l’istruttoria della pratica. L’assicurazione rigettava il sinistro non ravvisando alcuna responsabilità nell’operato dei sanitari.

A seguito di ciò si procedeva a incardinare il processo civile per l’accertamento delle responsabilità con richiesta di risarcimento del danno in favore degli eredi.

L’azione giudiziaria veniva gestita e coordinata dal nostro ufficio legale unitamente al medico legale ed al chirurgo generale, tutti del team di SanSanitas.

Nel giudizio, si precisava che le responsabilità dei medici erano plurime, in primo luogo, alla decisione di eseguire l’appendicectomia per via laparoscopica (piuttosto che per via laparotomica) e alla lesione inferta all’intestino tenue nel corso del primo intervento chirurgico. La scelta di procedere per via laparoscopica per asportare l’appendice, nonostante i sanitari fossero a conoscenza della storia clinica della paziente (la quale era già stata operata di colecistectomia e per stenosi intestinale da malattia diverticolare e, pertanto, presentava un elevato rischio di aderenze peritoneali), non ha risposto certo a criteri di prudenza.

A maggior ragione è da censurare, ad intervento iniziato e quindi con un quadro operatorio ormai chiaro (tanto che, nella scheda dell’intervento chirurgico, l’operatore annota viscerolisi imponente), la decisione di non convertire l’accesso laparoscopico in laparotomico: quest’ultimo, infatti, avrebbe consentito un’esplorazione più adeguata delle anse intestinali e ridotto notevolmente il rischio di una lesione all’intestino, la quale lesione è stata infatti procurata rendendo necessario un secondo intervento per via laparotomica nell’ambito del quale si è proceduto alla sutura della breccia e di una piccola speritoneizzazione di altra ansa intestinale.

Proprio dopo il secondo intervento (resosi necessario per riparare la lesione all’intestino tenue maldestramente provocata nel corso del primo intervento), la paziente inizia a manifestare insufficienza respiratoria.

In secondo luogo, alla decisione di riportare la paziente in camera operatoria per la terza volta per una revisione chirurgica, a seguito della formulata diagnosi di liponecrosi fianco sinistro.

La decisione di questo terzo passaggio in sala operatoria è stata assunta dai medici senza nemmeno avere effettuato un esame (ecografico o tomografico) che potesse confermarne l’effettiva necessità. Eppure, la duplice circostanza che la paziente aveva già subìto due interventi chirurgici (e due anestesie generali) in soli quattro giorni e che presentava (dopo il secondo intervento) insufficienza respiratoria post operatoria avrebbe dovuto indurli ad una maggiore prudenza.

L’assoluta inutilità del terzo atto operatorio è dimostrata dalle stesse annotazioni riportate in cartella clinica: i sanitari procedevano a ri-laparotomia ma, all’apertura del peritoneo, non rinvenivano alcunché di patologico e dunque ri-suturavano la parete addominale.

Probabilmente, nella decisione di procedere al terzo intervento chirurgico pure in assenza di oggettivi riscontri strumentali idonei a giustificare la nuova laparotomia, un ruolo importante lo ha giocato l’emotività dei medici: questi ultimi erano certo preoccupati per la non certo favorevole evoluzione del quadro clinico di una paziente ricoverata, in buone condizioni di salute, per una routinaria appendicectomia e tale crescente preoccupazione –con ogni evidenza- ha fatto loro perdere lucidità.

In terzo luogo, alle modalità con le quali è stato acquisito il consenso della paziente relativamente al terzo intervento chirurgico.

Dunque il progressivo peggioramento delle condizioni respiratorie della paziente fino all’exitus deve essere considerato la risultanza:

dello stato settico innescato dalla lesione arrecata alla parete dell’intestino tenue con il primo intervento e alimentato dal permanere della peritonite;

della broncopolmonite bilaterale, conseguente allo stato peritonitico, già in essere (come evidenziato dalla TC eseguita in tale data);

dei ripetuti passaggi in camera operatoria (tutti con anestesia generale), di cui il terzo totalmente inutile e, soprattutto, dannoso (poiché ha contribuito ad aggravare ulteriormente ed in maniera irreversibile le condizioni della paziente).

Quindi l’inadempimento dei medici della convenuta, riguardo la loro prestazione medico-professionale, ha riguardato tanto l’imperita esecuzione dell’appendicectomia per via laparoscopica quanto l’assistenza successivamente prestata alla paziente.

La controparte costituitasi nel processo chiedeva che venisse dichiarata l’assenza di responsabilità dei sanitari nella morte della paziente e l’assenza di nesso di causalità tra l’azione dei curanti e l’exitus e che, pertanto, venissero rigettate le domande formulate da parte attrice.

Il CTU nominato dal Tribunale, nelle proprie valutazioni medico-legali, mostrava di condividere gran parte delle considerazioni della nostra difesa.

In particolare, il CTU condivide l’opinione secondo cui lo stesso intervento di appendicectomia non era necessario.

Negligente, imperita ed imprudente –per il CTU- è stata pure la gestione della paziente dopo che ci si è resi conto della lesione intestinale cagionatale nel corso dell’appendicectomia.

Il CTU censurava anche la decisione di intervenire chirurgicamente per la terza volta.

Per il consulente tecnico d’ufficio l’indicazione al re-intervento esplorativo appare quantomeno affrettata. Considerando la gravità delle condizioni della paziente sarebbe stato più prudente effettuare una TC addome prima di procedere al re-intervento. L’esame avrebbe potuto accertare se vi fossero reperti riferibili ad ulteriori perforazioni in atto, evitando così di fatto una re-laparotomia non necessaria: … Si capisce allora che un accertamento preventivo mediante TC avrebbe potuto escludere la necessità del re-intervento che, per le condizioni della paziente, già gravi, appare aver contribuito ad un loro ulteriore ed irreversibile aggravamento.

Infine, con riferimento poi all’effettività del consenso espresso dalla paziente in relazione al terzo intervento chirurgico, il CTU così rispondeva: … Si deve rilevare che la paziente era stata estubata alle ore 10.00, la Consulenza chirurgica che ha indicato il re-intervento è delle ore 10.30 e il trasferimento in S.O. avveniva alle ore 11.15. La firma risulta della paziente, incerta, ma della paziente. Naturalmente non è del tutto possibile chiarire se fosse del tutto in grado di capire completamente cosa le veniva proposto.

Alla luce di tutte le sopra riportate considerazioni tecniche e medico-legali, il CTU così concludeva la sua relazione: …è possibile concludere affermando che il decesso della paziente non possa che ricondursi etiologicamente alla decisione dei chirurghi di sottoporla ad intervento chirurgico laparoscopico quando il quadro clinico della paziente era in netto miglioramento, cui faceva seguito complicanza perforativa che, sebbene trattata tempestivamente, a sua volta innescava un processo di progressiva insufficienza multiorgano. Peraltro, all’evoluzione tanatifera di tale temibile evento complicante contribuiva la decisione di non assisterla più tempestivamente da un punto di vista rianimatorio e di sottoporla infine, imprudentemente, ad ulteriore intervento chirurgico senza prima espletare un necessario percorso diagnostico (TAC addome pre-operatoria).

Il consulente tecnico d’ufficio confermava la responsabilità dei medici per il decesso della paziente, ricollegando tale evento a plurimi profili di responsabilità:

  • 1) innanzitutto per avere deciso di eseguire l’appendicectomia quando tale necessità, in considerazione del quadro clinico della paziente, non sussisteva (la paziente non doveva essere trattata chirurgicamente);
  • 2) per non avere assistito tempestivamente la madre degli istanti da un punto di vista rianimatorio;
  • 3) per avere sottoposto la paziente al terzo intervento chirurgico senza avere prima verificato, a mezzo TC, se esso fosse davvero necessario.

La sentenza e il risarcimento danni da malasanità

La sentenza del Tribunale prendeva atto dell’esito dell’istruttoria ed accoglieva la domanda di risarcimento in favore degli eredi della paziente.

I danni da risarcire erano iure proprio (degli eredi) e quelli ereditati dalla paziente.

Il Tribunale liquidava tutti i danni richiesti sia patrimoniali che non patrimoniali, specificando le singole voci di danno ivi compresa la perdita parentale, per un importo complessivo di Euro 919.484,00 oltre interessi legali.

L’associazione è lieta di avere conseguito il risultato sperato ma rimane l’amarezza per la perdita di una paziente a causa di errori commessi nel corso di un programmato intervento di routine, con un basso indice di complessità.

Riferimenti giurisprudenziali
Primo grado – sentenza definitiva n. 1551/2021 Tribunale di Palermo

Legal Team SanaSanitas

Autore: Area legale
Ass. Sanasanitas

I nostri professionisti Avvocati e Medici Legali sono gli autori degli articoli che pubblichiamo, essi sono professionisti altamente qualificati e già affermati nella loro attività lavorativa. 

Tutti gli avvocati sono specializzati nella materia della responsabilità sanitaria a cui dedicano molto tempo, specie per l’approfondimento di tematiche complesse, soprattutto riguardanti la tutela dei diritti dei pazienti e le questioni legate alla responsabilità medica. Tutto il team è consapevole del fatto che un errore chirurgico e/o medico può avere effetti nefasti sulla salute del paziente e di riflesso su tutto il suo nucleo familiare. Per questo collaborano con noi con grande partecipazione e spirito di giustizia, sottoscrivendo la convenzione con la nostra associazione.

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La sezione dei casi di successo è dedicata a raccontare storie di pazienti che hanno ottenuto giustizia e risarcimento per i danni subiti a causa di malasanità. In tutte queste vicende, i nostri fiduciari convenzionati si sono impegnati a rappresentare le ragioni dei pazienti per dimostrare la negligenza medica e gli errori commessi dai sanitari coinvolti.

Aggiorniamo la sezione con le storie vere di persone che hanno visto definita la loro vicenda in sede giudiziaria. 

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